
José María Sánchez-Verdú è un compositore andaluso che vive tra Madrid e Berlino.
La sua musica, frutto di una ricerca molto personale e riconoscibile nel panorama internazionale, risente in maniera vivida del suo interesse per l’architettura e la pittura, in particolar modo quella di Paul Klee e Pablo Palazuelo, il loro lavoro plastico sulle forme e sulla geometria dello spazio. Si è avvalso, nel corso della sua carriera, di alcuni dei migliori interpreti del panorama della Nuova Musica: Ensemble Modern, MusikFabrik, Ensemble Mosaik, Ensemble Recherche, Ensemble Nikel, Jürgen Ruck, Elena Casoli, Marcin Dylla ecc.
La musica di Sánchez-Verdú possiede un impatto comunicativo e immaginifico notevole, il che lo porta a essere programmato costantemente nelle più importanti rassegne europee di musica. Il legame che unisce José María Sánchez-Verdú e la chitarra è indissolubile: nel suo catalogo si contano circa quaranta lavori in cui lo strumento è protagonista. Una ricerca continua in cui la matrice tradizionale e popolare (dovuta alle sue origini andaluse) si mescola a risonanze, dinamiche sottili e scordature che lambiscono i limiti dello strumento. Cercheremo di approfondire questo percorso così duraturo insieme al compositore spagnolo, attraverso un dialogo che punta a riflettere non solo su quanto è stato fatto, ma che ci invita a intravedere come sarà la chitarra del futuro.
Gentile José María, grazie mille per aver accettato il nostro invito.
Ha dedicato moltissimo spazio nel suo catalogo alla chitarra. Qual è stato il suo primo approccio allo strumento?
Il mio primo strumento da bambino è stata la bandurria, un tipo di mandolino tipico della Spagna e di vari Paesi come Cuba, Colombia e Venezuela. Alla bandurria si sono affiancati la chitarra e il liuto. Poi sono arrivati altri strumenti nel periodo di formazione musicale (violino, pianoforte, organo), ma la chitarra è rimasta sullo sfondo di tutta una visione della musica che ha segnato anche alcuni dei miei primi lavori da giovanissimo compositore. Tránsito è un esempio molto precoce, quasi il mio opus 1, anche se ci sono stati molti lavori precedenti. E non manco mai di sottolineare che uno dei primi corsi di composizione che ho seguito è stato quello con Leo Brouwer, un incontro che ha indubbiamente arricchito e stimolato il mio percorso verso la composizione e anche l’amore e il massimo interesse per la chitarra.
Sappiamo che è un appassionato di architettura, in particolare quella araba, e di pittura. Come e in che misura questa ha influenzato il suo modo di comporre?
Ho un enorme interesse per l’architettura da molti punti di vista, è una delle mie grandi passioni e la collego continuamente al mestiere di compositore. Questa prospettiva, oltre al mio interesse per altre forme d’arte (pittura, scultura, arte visiva, ecc.), converge in modo particolare nella scrittura di un lavoro: questo mi ha spesso portato a muovermi in ambiti interdisciplinari che sono stati e sono fondamentali in molti dei miei progetti, soprattutto nel campo del teatro musicale e dell’opera.
Si parla spesso della sua musica come una perfetta sintesi della cultura araba e quella classica-ellenistica, nonché del linguaggio avanguardistico, tipicamente associato al centro Europa. Si riconosce in questi paradigmi o crede che il suo linguaggio rimanga sospeso in una sorta di astrattezza?
È molto difficile per me parlare della mia musica sotto questo punto di vista. Quando affronto questi temi centrali nei miei articoli, scritti o ricerche, cerco di penetrare nel terreno profondo che sta dietro e sotto la mia musica, in territori che amo studiare e svelare, che sono molto fertili per il mio lavoro compositivo. Senza dubbio la memoria culturale, la tradizione e la conoscenza di queste realtà artistiche – ma anche filosofiche e spirituali – giocano un ruolo essenziale nel mio pensiero musicale. Il mio catalogo di opere lascia segni indelebili di tutto questo percorso di studi, ricerche e incontri talvolta appassionanti.
Tránsito, il primo brano per chitarra, è del 1989, l’ultimo è OCHRA, del 2021. Com’è cambiato l’approccio alla scrittura chitarristica in retrospettiva?
Incredibilmente, trovo sempre molti collegamenti, molti aspetti che sono ancora presenti negli anni. In questo CD con Giuseppe Mennuti (OCHRA, 2023, Contrastes Records, ndr) ho potuto riscoprire le strette relazioni che alcune opere hanno con uno strumento come la chitarra. Sono rimasto sorpreso. Si tratta di un percorso in profondità, di più intensa ricerca e affinamento nel tempo, di maggiore messa in discussione di molte delle possibilità espressive di questo strumento e di maggiore riflessione sulla sua aura.
Sia con i suoi brani per chitarra classica che con la scrittura di YAD ha cercato di rimodellare la scrittura per chitarra spingendola oltre i suoi limiti. Quali pensa che siano ancora le parti inesplorate dello strumento e quale contributo potrà ancora dare alla musica contemporanea?
Non ne ho idea. Quello di cui sono sicuro è che nei nuovi lavori per chitarra, come quelli che ho realizzato dopo questo CD e quelli futuri che si stanno già avvicinando, la chitarra continuerà a essere il centro o il perno della traiettoria della mia vita intorno alla musica. Ci sono pochi strumenti così infinitamente complessi e allo stesso tempo così infinitamente profondi come la chitarra. La sfida di scrivere per le sei corde è sempre un grande stimolo per migliorare se stessi e l’inventiva. E di pura poesia.
Memoria del ocre è l’ultimo lavoro dedicato alla chitarra. La fine di un processo, cominciato con OCHRA e culminato con l’interpretazione di Petri Kumela e la Orquesta Sinfonica de Galicia, diretta da Dima Slobodeniuk. Ce ne vuole parlare?
Come in molti dei miei progetti per diversi strumenti solisti e orchestra (ho già sei concerti), mi piace affrontare un brano per strumento solista prima o dopo il lavoro per strumento e orchestra. Nel caso di OCHRA è nato prima il concerto e da lì ho sviluppato il brano per chitarra sola, a posteriori. Ci sono, tuttavia, molte variazioni e modifiche, e parti aggiunte in seguito, ma si tratta di opere gemelle. A volte il processo è stato inverso: prima ho composto un pezzo da solista e da lì è nato quello per strumento solista e orchestra. Memoria del ocre mi è molto caro perché si tratta di portare uno degli strumenti che amo di più nel formato orchestrale. Fa parte di un processo, ma non chiude nulla perché ho già composto di nuovo per chitarra, in questo caso il lavoro Sakkara per 4 chitarre per l’Aleph-Gitarrenquartett di Karlsruhe, o Esta nohte amore, per soprano e chitarra, dedicato a Jacob Kellerman e Keren Motseri ed eseguito a Stoccolma. Le esperienze precedenti di OCHRA o Memoria del ocre rimangono sempre come una risonanza e un riferimento. Sono parti indispensabili del percorso.
La chitarra è uno strumento “fragile”, che può raggiungere dinamiche molto sensibili. Eppure in lavori come NADA, Microludios, Dhatar è l’anello che unisce il susseguirsi degli eventi sonori. Secondo lei ci sono difficoltà nello scrivere musica da camera con chitarra? Se sì, quali?
La chitarra è uno strumento dalle possibilità illimitate e allo stesso tempo estremamente delicato e raffinato. Per me è proprio qui che risiede la sua estrema bellezza e anche l’enorme difficoltà di scrivere bene per chitarra. Tuttavia, lo adoro negli ensemble da camera, ed è senza dubbio il formato in cui ho usato di più questo strumento. La sua sola presenza in un ensemble da camera determina in modo assoluto la scrittura per gli altri strumenti. La gamma dinamica ha ovviamente un’influenza, ma ancora di più lo sono i molti strati di risonanza possibili, la delicatezza delle sue forme di articolazione e i timbri di molte e varie tecniche non tradizionali. E quando parlo di non-tradizionale intendo l’intera gamma espressiva di modi più originali di suonare la chitarra che sfuggono alla cornice di stereotipi e cliché della chitarra del XIX e della maggior parte del XX secolo. E’ uno strumento molto più ricco di un insieme ripetuto di forme standardizzate. Per me, è qui che si trova il suo avvenire e lo sviluppo di un corpus creativo che lo porterà nel futuro.
(traduzione a cura di Giuseppe Mennuti)
Apparso originariamente su Guitart n. 109